Due artiste inquiete. Vi si può definire così? Con tutte le accezioni che implica quest’aggettivo, da leggere anche e soprattutto come sinonimo di continua ricerca, di messa in gioco con la vostra arte e col vostro stesso corpo.
Potete raccontare in particolare del rapporto con la vostra fisicità e femminilità? (Penso agli autoscatti, al posare dell’una per l’altra , essendo al tempo stesso artiste e “muse”).
A: L’ inquietudine è un sentimento che non ho mai considerato negativo, anzi, mi da quella scossa interiore che mi spinge a percepire e conoscere tante parti di me stessa. Con la fotografia riesco a “vederle”, ad accettarle e quindi a farne parte…L’inquietudine, come la passione, è un campo magnetico per l’anima.
La fotografia è stata inventata per rappresentare la realtà ma la luce che l’ attraversa è molto più delle parole o di ciò che solo i nostri occhi vedono. Nella fotografia, il rapporto tra luce ed oscurità è una profonda ed infinita storia d’amore. Non puoi rinunciare ad una delle due. Il corpo è un filo conduttore tra il sentire ed il mostrare. Quando creo mi affido alla pura istintività, non progetto mai prima la gestualità, ed è in questo che trovo la verità che cercavo.
E: Ogni corpo ha infinite storie da raccontare, che affiorano via via che si guarda sempre più in là, sempre un po’ oltre il limite della pelle, alla ricerca di quel fondo buio che lo abita. L’inquietudine non può che essere motore di questa necessità. Il corpo diventa contenuto e contenitore allo stesso tempo, strumento nelle mani della voce narrante.
Le storie di cui racconto io costituiscono una narrazione figurata dei miei mostri, dei miei desideri, delle paure e dei turbamenti che si agitano nel mio fondo e che non sono poi così diversi da quelli di tutti voi. Solo che si sa, i mostri hanno manie di grandezza, ognuno di loro crede di essere il più forte.
Alessandra ha scelto di essere lei stessa strumento e voce narrante, io ho preferito affidare ad altri il compito di dar corpo ai miei racconti. Il mio mostro è uno di quelli che non ama il corpo in cui abita.
Le vostre opere sembrano “sospese”: ambientate in contesti fantastico-fiabeschi nel caso della Anfuso, e “ingabbiate” in spazi estremamente intimi.
Siete entrambe catanesi, quanto e cosa trasferite nella vostra arte della Sicilia, terra ricca di contrasti e suggestioni?
E: Terra ricca di miti e di leggende, di fiabe e di coloriti racconti popolari. Sono cresciuta alle pendici dell’Etna, non l’Etna vulcano, non i sentieri di lava, non i crateri col loro andirivieni di turisti, ma l’Etna dei boschi fitti, l’Etna luogo scelto dalla fata Morgana come sua dimora privilegiata, l’Etna segnata sulle mappe medievali come terra delle fate.
Ho sempre sentito di appartenere poco, per indole, a questa mia terra ma alcune cose si portano dentro, sono radicate in profondità e ovunque nell’aria che respiro.
A: Probabilmente la sospensione è tutt’ora l’unico luogo a cui sento di appartenere. Da piccola ero una di quelle bambine che aveva il bisogno di starsene in camera, da sola a colorare mondi su dei fogli di carta, pur di sentirsi parte di qualcosa che sapeva non le avrebbe mai fatto del male.
Adesso quei fogli sono diventate stampe fotografiche.
La vostra pittura e fotografia comunicano tra loro, si riflettono e rimandano in un dialogo visivo (tra donne) che inevitabilmente vi contamina. Quando e come avete iniziato a lavorare assieme?
A: Nel 2013 Elisa mi contattò, scrivendomi che da un po’ di tempo le apparivo in sogno e nelle sue visioni. Mi chiese con tutta l’umiltà e la poesia che possiede se ero disposta a farmi ritrarre da lei. Mi aveva vista solo tramite le mie fotografie sul web, mai di persona. L’ultima cosa che pensavo nella vita è che avrei posato per qualcun altro che non fossi io. Ho sempre rifiutato le proposte dei miei colleghi, solo il pensiero mi portava profondo disagio, perché non sono una modella o uno “strumento” da esibire, ma una donna riservata, colma di ombre ed imperfezioni che ha bisogno di trasformare tutto questo in bellezza pur di sopravvivere ed avvicinarsi agli altri.
Beh, lo è anche Elisa. Quando la incontrai fu incredibile, nonostante vedesse chiaramente le mie ombre, mi guardò come se fossi la cosa più bella e pura che esistesse quella sera nel mondo. Sentirlo da parte di una donna artista, dalla sensibilità sovraumana è un sentimento speciale e quasi materno. Il giorno dopo ho posato per lei con una naturalezza disarmante e non ci siamo fermate più.
E: Nel viso di Alessandra ho visto un luogo infinito di possibilità, e di racconti. L’ho vista subito trasparente ai miei occhi, perché credo che le anime affini sappiano sempre riconoscersi e comprendersi. E così lei, per la prima volta dall’altra parte di un obiettivo che non era il suo, ha abitato perfettamente il mio mondo, ha inscenato come fossero sue le mie visioni allegoriche e nel darsi a me ha lasciato emergere una nuova parte di sé.
Un’empatia rafforzata dal legame tra i nostri rispettivi mezzi: lei che dilata il tempo e fotografa come se volesse dipingere i corpi con la luce, io che dipingo come se volessi condensare nel singolo istante di uno scatto fotografico, tutto il tempo possibile e impossibile.
Concepire delle opere insieme, creare un luogo dove si potesse incontrare ciò che rispettivamente ci contraddistingue, se all’inizio ci è apparso quasi naturale, ad un certo punto è diventato persino un’urgenza.
Io ho sempre la sensazione forte che siano le opere a scegliere noi, per venire alla luce.
Un’ arte, che è un mix di reale e irreale (di conscio e inconscio). Quale delle due dimensioni fate affiorare maggiormente? Quale costituisce la base della vostra ispirazione?
E: L’inconscio, con le sue pulsioni, le sue visioni salvifiche e i suoi moti incessanti e conturbanti è una delle fonti più autentiche cui attingere nel viaggio verso la consapevolezza di Sé.
È la casa dei mostri, che non perché dimorano lì sono meno reali. I confini tra reale e irreale sono una faccenda assai delicata!
Questo muoversi tra dentro e fuori, tra sopra e sotto, conscio e inconscio, è forse uno dei tratti che maggiormente accomuna il mio modus operandi a quello di Alessandra.
Sono lavori sempre intimi perché attraverso di essi ci guardiamo dentro e poi torniamo a galla, sulla superficie che è poi la superficie su cui affiora l’opera.
Opere autobiografiche ma al contempo potenzialmente universali, perché col loro linguaggio allegorico carico di suggestioni, raccontano di ombre e di luci, di mostri e di salvezze che chiedono di farsi corpo, per poter essere compresi.
A: Le varie dimensioni trovano equilibrio fra loro durante e grazie al processo creativo. Per l’osservatore è tutto molto soggettivo, ognuno di loro sceglie inconsciamente quale parte fare propria. La nostra verità non sta nel dettare regole, tempi, o equilibrare dimensioni, ma sta nella condivisione, nel dare voce a ciò che ognuno di noi ha nel profondo.
L’inconscio è messo a nudo, nella sua “verità”, non a caso il titolo della vostra più recente mostra, allestita alla Liquid Art System di Positano e poi in parte trasferita a Capri, è Inconscia Veritas. Volete descrivere cosa ha significato per voi concepire un lavoro simbiotico, da esporre insieme e in alcuni tratti da realizzare assieme, ( penso al lavoro a 4 mani Genesi)?
E: Ogni opera è per il suo creatore un po’ della sua anima, del suo sangue, dei suoi desideri e delle sue inquietudini, e questo comporta una grande responsabilità.
In due tutto ciò si amplifica: come fosse la stessa musica, con due strumenti diversi che risuonano ognuno nella cassa di risonanza dell’altro, ognuno con dietro il suo bagaglio di anima e di sangue, di desideri e di inquietudini.
A: Prima di Genesi, a differenza di Elisa, non avevo mai coinvolto qualcuno nelle mie visioni, nè usato la mia tecnica fotografica su altri soggetti. Ero molto intimorita ma curiosa ed appassionata. Quando finimmo la prima opera “Genesi I” , la osservammo per qualche minuto ed Elisa disse: “è incredibile, non si capisce dove inizi tu e dove finisco io, o viceversa”.
È stato quello il momento in cui ho capito che stava cominciando un nuovo e visionario viaggio, in cui per la prima volta in vita mia non sarei stata da sola.